Alla scoperta dei mercati emergenti - Parte I

22 Marzo 2024 _ News

Alla scoperta dei mercati emergenti - Parte I
L'Oriente

 

I mercati emergenti e le economie in via di sviluppo rappresentano insieme il 40% del PIL globale (prezzi correnti). In particolare, la sola area di Asia-Pacifico produce il 35% circa del prodotto interno lordo mondiale, oltre ad essere la regione economica in più rapida crescita (crescita del PIL reale nel 2023 del 4,4%, contro l’1,5% delle economie avanzate e il 3% globale). Per avere un’idea, 3 dei primi 10 paesi per PIL nominale al mondo sono economie asiatiche emergenti (Cina, India e Corea del Sud). L’India è già ora un’economia più grande di Francia o Italia, ma ci si attende che il suo PIL nel 2024 cresca del 6,3% contro lo 0,7% dell’Italia e l’1,3% della Francia.
Se invece andiamo a guardare la classifica degli Stati per PIL a parità di potere d’acquisto, che tiene in considerazione il costo della vita e l’inflazione, la Cina figura come la prima economia globale, e l’India come terza, con un PIL reale superiore persino a quello di Germania e Regno Unito, che si posiziona addirittura dietro l’Indonesia.

In altre parole, le economie emergenti sono più rilevanti di quanto siamo portati a credere. Esse rappresentano un’opportunità di investimento da tenere quantomeno in considerazione, e certamente noi lo facciamo da tempo. Tuttavia, le guerre calde in Europa e nel Medio Oriente, le tensioni in Asia, i problemi di politica interna in America Latina, e un calendario elettorale congestionato rappresentano attualmente una fonte di forte incertezza, rendendo più difficoltoso l’orientamento nei mercati.

Ad oggi, il principale rompicapo per gli investitori che approcciano i mercati emergenti è rappresentato dalla Cina di Xi Jinping. Dopo un mese di gennaio disastroso, dove l’indice Hang Seng di Hong Kong è arrivato ai livelli del 1997 (quando, per intenderci, Alibaba e Tencent non erano ancora stati fondati), il mese di febbraio ha visto un discreto rimbalzo dei prezzi. Tuttavia, le valutazioni continuano ad essere relativamente basse (p/e sotto la media storica di circa il 15%), mal celando una certa sfiducia da parte del mercato.  Ad incidere potrebbe essere la debole ripresa economica che ostacola la crescita dei ricavi e dei profitti nel breve termine. Resta, però, l’impressione che l’economia cinese abbia ancora spazi di crescita, con Pechino intenzionata (forse obbligata) a fornire maggiore sostegno fiscale. Nel frattempo, le aziende, vista la diminuzione delle opportunità di investimento, sono più propense a restituire liquidità agli investitori attraverso dividendi e buybacks di azioni.

Incidono e non poco anche le tensioni geopolitiche con USA e Taiwan. Riguardo quest’ultima, nonostante le pressioni esterne esercitate dalla Cina, che definiva le elezioni come una questione di scelta tra “guerra e pace”, le elezioni presidenziali di gennaio hanno sancito la vittoria del partito indipendentista guidato da Lai Ching-te. Di certo, l’elevata importanza strategica dell’isola, leader mondiale nella produzione di chip grazie alle aziende TSMC e UMC, rende la situazione ancora più delicata. Dietro l’angolo anche un nuovo inasprimento della battaglia commerciale con gli States vista la possibile affermazione (o quanto meno non esclusa dai sondaggi) di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca.

Tutto ciò scoraggia gli investitori, li rende titubanti. Anche se remoto al momento, un eventuale conflitto Sino-Americano sul fronte Taiwan, congelerebbe i mercati cinesi, come, ad esempio, successo in Russia.

A stemperare un po' il clima va riconosciuto, però, che queste tensioni si protraggono ormai da diverso tempo, e questo non ha impedito al mercato cinese di prosperare negli ultimi 15 anni (l’Hang Seng di Hong Kong ha toccato i suoi massimi a gennaio 2018, nel pieno dell’amministrazione Trump).

Ragion per cui c’è dell’altro dietro il momento negativo del mercato cinese e a nostro avviso, a limitare davvero i flussi di capitale estero verso la Cina è la deriva autocratica di Xi Jinping. La storia di Jack Ma è un ricordo vivo nella mente di tutti gli investitori interessati al mercato asiatico. Fondatore di Alibaba e Alipay, Jack Ma era stato in grado di soppiantare Amazon nel Dragone, diventando l’uomo più ricco e famoso della Cina, e arrivando al punto di permettersi il lusso di assumere posizioni critiche verso il governo. Il partito comunista ha agito di conseguenza (come da tradizione). Risultato? il miliardario è scomparso per diversi mesi e ha subito un notevole ridimensionamento, costretto a cedere il controllo di Ant Group, società che gestisce Alipay, e a ridurre fortemente le sue uscite pubbliche. In sostanza, Xi Jinping ha mandato un segnale chiaro e inequivocabile: nessuno può permettersi di sfidare il Partito comunista e di condividere il suo potere, neppure l’imprenditore più ricco e influente del paese. Questo, inevitabilmente, esercita un freno sugli investitori esteri, preoccupati da un governo centrale che può intervenire come e quando vuole in modo del tutto impossibile da prevedere.

Non è un caso allora l’aver assistito alla prepotente ascesa di un paese eterno incompiuto nel vasto panorama asiatico: l’India.

Il paese sta sperimentando un forte aumento dei consumi privati che ha portato a stime di crescita del PIL per il 2024 senza eguali nel mondo e pari al 6,5%. In più, l’espansione della classe media e il ciclo di riforme avviato dal primo ministro Narendra Modi, la cui rielezione nel 2024 appare più che probabile, assicurano un discreto margine in termini di crescita futura.

In questo contesto un mercato azionario ai massimi storici non stupisce, con l’indice indiano Sensex cresciuto di quasi il 25% rispetto ad un anno fa, aiutato da una rupia indiana che si mantiene relativamente debole e dal reindirizzamento dei flussi finanziari esteri destinati alla Cina.

Tuttavia, questo si riflette in valutazioni molto elevate, con un prezzo su utili di circa l’11% sopra la media storica. Di fatti, confrontando i p/e dei titoli con maggiore capitalizzazione di mercato rispetto alla relativa media storica, è possibile notare che Reliance (società petrolifera) ha una sopravalutazione di più del 50%, Tata e Larsen&Toubro attorno al 50%, e Infosys quasi del 40%. Tali dati suggeriscono di mantenere una posizione di attesa, pronti a cogliere eventuali occasioni in caso di correzione al ribasso che rinormalizzino i prezzi.

Considerando l’importanza dell’industria dei semiconduttori, già accennata prima in riferimento al Taiwan, è necessario menzionare anche la Corea del Sud, terzo esportatore di microchip a livello globale. L’economia sudcoreana presenta alcuni temi che suggeriscono una potenziale crescita strutturale considerevole. Vanta tre aziende, Samsung, LG e SK Hynix, che sono tra le principali operatrici nei settori dei semiconduttori e delle batterie, di crescente rilevanza. C’è da considerare, però, un aspetto di grande importanza. Dando uno sguardo alla composizione settoriale dell’indice MSCI South Korea, si nota che i settori ciclici (IT, consumi discrezionali, industriali, materiali, comunicazione ed energia) pesano sull’indice più del 90%. Questo implica una maggiore fluttuazione e una minore prevedibilità degli utili, e, di riflesso, dei prezzi (l’ETF IShares basato sull’indice MSCI South Korea ha una deviazione standard del 27%, non bassa quindi).

Tirando le somme, il panorama asiatico risulta variegato e interessante. Non è possibile, quindi, trascurarlo nelle scelte di investimento, e di certo non è nostra intenzione farlo. In termini prospettici, dopo aver preso profitto sulla componente azionaria indiana, siamo tornati a guardare con grande interesse l’azionario cinese, le cui valutazioni, come detto, risultano troppo basse anche in termini oggettivi per non tenerne conto.

 

 

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